Di Maurizio Martina e Suor Alessandra Smerilli
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Meno dello 0,5% di tutti i vaccini anti-Covid prodotti sono stati somministrati nei paesi a basso reddito. E vaccini che vanno refrigerati non possono arrivare dove non c’è neanche l’energia elettrica. Nessuno è salvo finché tutti non sono salvi.
Non era mai accaduto che l’essere umano riuscisse a produrre vaccini in meno di un anno come è successo nel lasso di tempo che va dall’inizio della tragica pandemia che stiamo vivendo alla prima iniezione garantita a una persona per proteggersi dal Covid-19. È stato possibile grazie alle ricerche condotte in passato, a ingenti risorse umane e finanziarie messe a disposizione, alla gestione in parallelo delle fasi di valutazione e studio, a una diversa organizzazione dei tempi delle agenzie regolatorie.
Ora in molti chiedono la massima diffusione dei vaccini in quanto bene comune globale che deve arrivare a tutti, anche perché nessuno è salvo finché tutti non sono salvi. È più che mai necessario, come leggiamo nella dichiarazione di Roma sottoscritta durante il Global Heath Summit: «migliorare l’accesso tempestivo, globale ed equo» al vaccino e alle cure. Sebbene si discuta sulla sospensione dei brevetti, sui limiti alle esportazioni ancora presenti per decisione di alcuni Stati, sulla necessità di calmierare i prezzi dei vaccini, è purtroppo evidente che in particolare nei paesi in via di sviluppo le campagne vaccinali sono ancora molto limitate.
Meno dello 0,5% di tutti i vaccini anti-Covid prodotti sono stati somministrati nei paesi a basso reddito. E anche quando le dosi di vaccino arrivano in alcune di queste realtà, la mancanza di personale e di strumentazioni adeguate ne compromettono i risultati. Mentre nei paesi ricchi si vaccina al ritmo di una persona al secondo, nei paesi poveri la larghissima parte della popolazione non ha ricevuto nemmeno la prima dose.
Le conseguenze sono drammatiche per milioni di persone. Rischiamo di convivere con il virus per decenni senza riuscire a sradicarlo. Di fronte a una pandemia che colpisce tutti indistintamente, per quale motivo il potersi curare deve dipendere dal luogo in cui si è nati o dalle condizioni economiche in cui si versa? Nella sua semplicità dirompente, Papa Francesco ricorda a tutti che «la cura del virus va progettata privilegiando coloro che ne hanno più bisogno».
A questo proposito sarebbe necessario togliersi le lenti di un mondo occidentale e ben equipaggiato nel momento stesso in cui si pensano e progettano vaccini e cure. Come cambierebbero i prodotti finali se sviluppassimo un vaccino adatto a piccole comunità rurali e contadine delle aree periferiche del mondo dove manca l’elettricità? Sappiamo che oggi la consegna e lo stoccaggio dei vaccini è fortemente legata alla catena del freddo e il principale ostacolo rimane l’indisponibilità massiva di vaccini stabili a temperatura ambiente. Quello che per noi è considerato banale e scontato, per molti non lo è. Arrivare nei villaggi più periferici di tante aree nel mondo con dosi di vaccino che devono essere mantenute a temperature di refrigerazione basse o bassissime, rimane un problema quasi insormontabile, anche se produzione e distribuzione risultassero più eque.
È necessario allora investire subito in modo organizzato su scala globale sui vaccini di nuova generazione che non necessitino più della catena del freddo e che possano essere prodotti ed arrivare a destinazione a costi sostenibili, anche per l’ambiente. Sarebbe anche un atto di rispetto per la nostra casa comune. Su The Lancet la virologa italiana Ilaria Capua, insieme al pediatra Carlo Giaquinto, hanno già indicato una prospettiva che a noi pare importante.
L’Italia, oggi alla guida del G20 e protagonista di impegni rilevanti come il Summit di luglio a Roma sul futuro dei sistemi alimentari, può giocare un ruolo prezioso. Usciremo migliori da questo momento se sapremo mettere al centro davvero la cura di ogni persona, di tutte le persone, ovunque esse vivano, a partire da chi ha di meno.