Di Ilaria Capua e Antonietta Mira.
Leggi anche su Corriere.it
Un’eredità del Covid potrebbe essere quella di raccogliere i dati, organizzarli e offrirli secondo un criterio di genere.
A un anno e mezzo dai primi allarmi per l’emergenza Covid, siamo arrivati a contare almeno 180 milioni di persone infettate di cui 3,8 milioni sono morte. Cosa ci colpisce di queste cifre? L’immensità. E senza dubbio, il dolore e l’impoverimento umano ed economico che questi dati racchiudono. Ma c’è dell’altro che non si vede. Troppo spesso i numeri associati all’impatto del Covid non ci dicono se le vittime siano individui maschi o femmine alla nascita. Eppure, non sono necessari studi approfonditi per capire quanto la differenza di «sesso-e-genere» (ossia il sesso alla nascita e poi l’identità di genere acquisita) sia rilevante in questa vicenda. Non parliamo solo della malattia, del suo decorso o degli eventuali effetti collaterali delle vaccinazioni.
Nel corso dell’emergenza Covid le donne hanno ancora una volta dimostrato di costituire quella resiliente rete d’acciaio che è la trama della nostra società. Si sono dimostrate più resistenti al virus, si sono occupate della cura, dell’istruzione a domicilio e della famiglia allargata e si immagina che saranno probabilmente costate meno al Servizio sanitario nazionale.
Ma la realtà è che non si tratta di diversità soltanto biomediche, ma anche sociali ed economiche. Per esempio, sappiamo che le donne sono più attente nel rispettare i comportamenti virtuosi e questo deve servire a tarare la comunicazione anti-pandemica. E sappiamo anche che sono donne moltissime delle persone impegnate nel contrasto degli effetti della pandemia. Già! Le donne costituiscono quasi il 70% degli operatori sanitari in prima linea contro il Covid e, in quanto tali, sono esposte a un rischio maggiore di infezione o re-infezione. E certo, data l’ostinata e spesso intollerabile persistenza dei ruoli di genere, fa molta differenza se in una famiglia si ammala uno o l’altro dei genitori. Per non parlare del fatto che la gestione della risposta pandemica delle leader al femminile pare sia stata più efficace di quella maschile. I numeri parleranno, si dice. Ecco, appunto: vorremmo avere dati per poter verificare o precisare queste affermazioni. Ma dove trovarli? Di qui la nostra proposta che parte dalla constatazione che includere la dimensione di sesso-e-genere nella raccolta dei dati solo a posteriori quando questa dimensione viene ritenuta pertinente non è, per vari motivi, la soluzione migliore.
È vero che l’Ocse e l’Onu hanno delle linee guida che aiutano a valutare se la prospettiva di genere è rilevante per uno studio e, nel caso, se procedere alla raccolta dati differenziandoli per genere. Pensiamo però che sia arrivato il momento di adottare un approccio addirittura rovesciato. La raccolta dei dati dovrebbe sempre seguire, cioè «by default», il criterio della distinzione di genere e trascurarla solo quando inoppugnabilmente irrilevante. Certo, oggi, grazie ad alcune iniziative internazionali, vi è una grande e crescente attenzione delle istituzioni pubbliche dei Paesi occidentali alla variabile sesso-e-genere. Ma è una sensibilità che spesso non è rispecchiata nei fatti né dalle istituzioni pubbliche né tantomeno da chi fornisce dati a pagamento.
Se una delle eredità del Covid fosse la consuetudine o l’obbligo di raccogliere dati, organizzarli e offrirli «by default» secondo un criterio di genere, potremmo almeno sperare che nell’epoca post-Covid si potrà accompagnare il talento e l’impegno femminile verso la loro valorizzazione in maniera scientifica piuttosto che umorale. I numeri li abbiamo.