Intervista di Marina Speich
L’abbiamo ascoltata spesso in tv durante il lockdown mentre parlava degli effetti del Covid-19, ma Ilaria Capua è anche la virologa che ha scoperto il virus dell’aviaria e ha lottato perché il mondo potesse affrontarlo subito. In Italia è stata chiamata “trafficante”, l’America le ha dato la guida di un centro medico all’avanguardia. Ora che la sua storia ha ispirato un film lei racconta a Grazia le notti insonni, le ferite e le rivincite che hanno accompagnato il suo grande amore per la ricerca.
«Che cosa vuoi fare da grande?». Oggi sempre più spesso, tra le bambine e le ragazze italiane, la risposta è: «Voglio diventare come Ilaria Capua». Accanto all’astronauta Samantha Cristoforetti, prima donna italiana a essere andata nello spazio, Capua, oggi direttrice del Centro di Eccellenza One Health dell’Università della Florida, è un modello per le nuove generazioni. Con la pandemia Capua è diventata infatti una delle voci scientifiche più autorevoli sul tema e il suo volto è entrato nelle case di tutti attraverso trasmissioni e interviste, al punto che una parte della sua vita ha ispirato un film interpretato dall’attrice Anna Foglietta, Trafficante di virus. Oggi la virologa dirige un prestigioso laboratorio di ricerca ed è convinta che la pandemia può essere il punto di partenza per creare una nuova consapevolezza tra i cittadini. Per questo sono usciti proprio in queste settimane due suoi libri, La meraviglia e la trasformazione verso una salute circolare (Mondadori), in cui Capua racconta un nuovo modo di guardare alla salute e al mondo che ci circonda, e il libro-gioco per bambini Girogirotondo. È uno il mondo (La Coccinella).
Partiamo dall’inizio della sua storia professionale. Perché ha studiato veterinaria?
«Vengo da una famiglia di avvocati: mio padre voleva che studiassi a tutti i costi Giurisprudenza, io volevo invece dedicarmi alle scienze. Al liceo avevo avuto un bravo professore, ma sentivo soprattutto una vibrazione, un fascino particolare per la biologia, la fisica, la chimica. Nella vita devi fare quello che senti: solo così trovi la forza per cercare la tua strada. Avevo anche un’altra necessità: uscire di casa. Veterinaria era la soluzione perfetta: era l’unica facoltà scientifica che non c’era a Roma, dove vivevamo. Mi sono trasferita così a Perugia, con l’appoggio della mia mamma: era nata lì. Ho studiato per cinque anni come una pazza e mi sono laureata giovanissima. Allora Medicina Veterinaria era considerata la facoltà più difficile: 52 esami in cinque anni mentre Medicina ne aveva solo 26 in sei anni».
Aveva già un’idea chiara di che cosa avrebbe fatto “da grande”?
«Ho capito subito che non mi sarei mai occupata di clinica, cioè della cura degli animali. Io volevo fare la ricercatrice e Medicina Veterinaria era lo strumento per arrivarci. A me interessava affrontare problemi di sanità pubblica: volevo dare un contributo al progresso dell’umanità, lavorando su temi che andavano oltre la veterinaria, come i virus e le malattie infettive. Perché la gente non lo sa, ma i virus legati alle pandemie vengono quasi tutti dagli animali ed è per questo che molti veterinari sono esperti di virus pandemici».
Cioè prima che avvenga il salto di specie, dall’animale all’uomo.
«Esattamente: prima sono i virologi veterinari a occuparsi di quei virus che bussano alla porta della specie Homo sapiens, dall’influenza aviaria a quella suina, da Ebola a Zika, da Sars a Mers. Per questo noi virologi veterinari capiamo prima degli altri l’impatto che può avere un virus sull’uomo. Quando è scoppiato il Sars-CoV 2, per esempio, sono stata tra i primi a dire che bisognava attrezzarsi con telelavoro e didattica a distanza. Mi hanno dato della pazza. Oggi sono ancora oggetto di insulti pesanti, come se un veterinario non potesse parlare di virus pandemici dopo averli studiati per una vita. Ma per esempio anche l’amministratore delegato della Pfizer, azienda che produce uno dei vaccini anti-Covid, è laureato in veterinaria».
C’è poca informazione su alcune discipline Stem, acronimo di Science, Technology, Engineering e Mathematics, le discipline scientifico-tecnologiche e i relativi campi di studio.
«Sì: una laurea nelle discipline Stem apre molte porte e conduce in luoghi che non avresti mai immaginato. Prima del Covid, per esempio, le persone pensavano che le tematiche sulle malattie infettive fossero ormai ridotte ad antinfiammatori e antibiotici. Adesso invece se ne capisce la portata e si sa che per gestirle occorrono organizzazioni e decisioni a livello internazionale».
Lei è una scienziata coraggiosa: nel 2006 ha scatenato un terremoto proponendo di rendere pubblica la sequenza del codice genetico di un virus importante, quello dell’aviaria, che si può trasmettere anche all’uomo. Anche la stampa internazionale aveva parlato di lei: un approccio rivoluzionario risultato vincente anche con il Sars-Covid 2. Può spiegare di che cosa si tratta?
«Mi chiesero di mettere il codice genetico del virus dell’aviaria in un database ad accesso limitato: potevano studiarlo solo 15 laboratori. Mi rifiutai. Dissi: “L’aviaria è un problema di salute pubblica globale. Dobbiamo trovare un modo per lavorare insieme con gli altri ricercatori”. Molti mi hanno criticata, ma ho avuto anche grandi riconoscimenti. Oggi, 15 anni dopo, quando è stato isolato il virus del Covid, il codice genetico è stato depositato in una banca dati aperta, seguendo l’approccio che avevo lanciato molti anni prima. Tanti ricercatori hanno lavorato insieme in tutto il mondo. Solo così siamo riusciti a sviluppare test diagnostici, farmaci e vaccini rapidamente, dando una risposta efficace all’emergenza».
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