Un male che si è trasformato in bene

26 Novembre 2021

Intervista di Paola Pica

È finita, «It’s over», le annuncia in inglese il marito nelle ultime battute di Trafficante di virus , film liberamente ispirato alla storia di Ilaria Capua e tratto dal libro autobiografico della stessa studiosa italiana che oggi vive e lavora negli Stati Uniti. È il 5 luglio del 2016 e si chiude con il «non luogo a procedere perché il fatto non sussiste» l’incubo giudiziario, e mediatico che ha travolto la vita della virologa, della sua famiglia, di amici e collaboratori. Quando una copertina dell’ Espresso nell’aprile del 2014 fece scoppiare il caso —rendendo nota un’indagine (poi rivelatasi infondata), i nomi dei 41 indagati, le gravissime ipotesi di reato, da associazione a delinquere a tentata strage —, la ricercatrice italiana era deputata, eletta nella lista di Mario Monti, e una figura di riferimento a livello internazionale dove era già stata insignita di diversi premi dal Revolutionary Mind di Seed al prestigioso Penn Vet World Leadership in Animal Health. Sulle spalle aveva ancora lo “strappo” dell’ open-science , la scelta nel 2006, di rendere pubblici i dati genetici sull’influenza aviaria che colse di sorpresa la comunità scientifica e rivoluzionò un sistema. A quel gesto di Ilaria Capua, allora quarantenne, dobbiamo la spinta più significativa alle strategie di contrasto alle pandemie.

Professoressa Capua, dice nel film l’avvocato: «Non sapremo mai chi è stato», cioè chi è stato responsabile della fuga di notizie…
«No, non lo sapremo mai. Questo è anche un film sul muro di gomma. È un film profondo. Sono rimasta colpita dall’enorme lavoro di documentazione e dai testi di grande precisione anche scientifica».

Ci si è ritrovata?
«È il racconto di una storia vera, liberamente ispirato al mio libro, scritto per documentare una vicenda assolutamente surreale. Anna Foglietta, l’attrice protagonista, è davvero bravissima ed è l’interprete di una storia che andava raccontata. Spero che questo film mi permetterà di staccarmi da quella orribile vicenda, così magari un giorno la vedrò distante da me e depotenziata. Magari riuscirò a non pensarci più tanto, e quegli anni cadranno in una sorta di dimenticatoio. La mia storia, adesso, non è più solo mia, è libera di farsi conoscere. Ed è di questo che dovremmo parlare, del perché di questo film».

Qual è il senso del libro e quindi della pellicola?
«Partirei da quella che è una delle sfide più grandi che la vita a volte ci mette di fronte: trasformare le cose negative in spirali di positività. Lo abbiamo visto tante volte come da esperienze tragiche, anche molto più tragiche delle mie, nascano cose meravigliose. Per esempio, l’Università di Stanford è stata fondata dai genitori americani in memoria di un bambino morto di tifo a Firenze alla fine dell’800. Vale sempre la pena di investire nella trasformazione del male in qualcosa che porti un miglioramento per la collettività».

A quale trasformazione può portare?
«A una battaglia di civiltà. È attraverso una maggiore conoscenza pubblica di certi fenomeni che si può creare quella coscienza civica che certe cose non le accetta più»

A cosa si riferisce?
«Allo sbatti il mostro in prima pagina. E alle indagini non accurate in particolare quando si tratta di scienza e specialmente in questo momento. Nei prossimi mesi è probabile che ci saranno delle indagini legate alla pandemia. È importante sottolineare che servono competenze e conoscenza del linguaggio della scienza per occuparsene. Perché altrimenti è altissimo il rischio di sbagliare come è stato fatto nel nostro caso. Chi mi accusava ha capito male quello che dicevo al telefono, non ha compreso né verificato, ha scambiato addirittura un virus per un altro. Sono errori ingiustificabili se si accusa una persona di reati punibili con l’ergastolo. Sono malintesi con ramificazioni velenose che distruggono la vita delle persone».

Non sono argomenti facili…
«No per niente, ci si può sbagliare se non si conosce l’argomento perché la materia è molto complessa. Non a caso ci sono persone che studiano i virus per tutta la vita. Ma è necessario che le indagini che verranno siano gestite da figure competenti, che possano capire il discorso scientifico perché ci saranno passaggi delicati e situazioni complicate».

La battaglia civile sarà aiutata dalla direttiva europea sulla presunzione d’innocenza?
«È una direttiva che tutela la dignità delle persone che sono indagate. Va aperta una riflessione pubblica anche sul processo mediatico, qualcosa che avviene sui media, sui giornali che devasta la vita delle persone».

Nel suo libro ‘Io trafficante di virus’ scrisse di sentirsi come Hester Pynne, l’adultera nella Lettera Scarlatta: «Anche quando vado per la strada penso che tutti guardino la mia lettera…».
«Si è cosi. Ci sono la famiglia, gli amici, la scuola dei figli, i professori, gli altri genitori, il vicino di casa, per dire. Bisogna che si conosca l’impatto del “fango” prodotto dalla fuga di notizie, specialmente quando l’indagato impara dai giornali i reati che avrebbe commesso. Quindi un altro pezzo della battaglia civile è proprio contro questa barbarie. I processi vanno fatti nelle aule dei tribunali. Mentre in Italia troppo spesso la crocifissione mediatica arriva prima del giudizio».

Se l’aspettava che il libro diventasse un film?
«No, sono stata contattata a un certo punto da Francesca Archibugi che ne ha scritto la prima sceneggiatura. Devo dire che non mi aspettavo che dietro un film ci fosse così tanto lavoro di documentazione. Hanno studiato anche i minimi dettagli ed hanno veramente fatto un lavoro titanico. Costanza Quatriglio, la regista, si è documentata moltissimo sulla vita in laboratorio ed il risultato è eccezionale».

Sono molto ben raccontate anche la vita di laboratorio di una ricercatrice, entusiasmi e bocconi amari.
«Il terzo blocco della battaglia civile è quello di fare conoscere il potenziale delle donne nella ricerca. Ho scritto più di un libro sulla mia vita scientifica e non solo per condividere gli allori ma volevo anche raccontare le grandissime difficoltà che ci sono per le donne nel mondo della ricerca. Anche nel film questa cosa è evidente. Io stessa quando l’ho visto ho pensato “ma poveraccia, come si dice a Roma, ma quante ne ha passate, una corsa ad ostacoli pure finita male!”».

Si direbbe che alla protagonista che nel film si chiama Irene non venga perdonato il fatto di aver vinto più volte bandi di ricerca, più soldi degli altri…
«In quegli anni, portare a casa dei progetti di respiro internazionale, oltre ai finanziamenti della Commissione europea, si è trasformato in un percorso accidentato e faticoso. Stavamo lavorando bene con tutta la mia squadra, non ero sola, potevo contare su un gruppo di bravissimi ricercatori italiani, avevamo le idee giuste e la voglia di innovare. Io chiedevo libertà d’azione, volevo fare di testa mia ed ho dovuto fare delle salite impervie e delle battaglie durissime. La valorizzazione dei talenti e delle squadre di lavoro resta un grande tema in Italia. Nel film emerge invece l’affiatamento e la dedizione di tutto il team».

Adesso lei ha di nuovo voglia di guardare avanti: La meraviglia e la trasformazione è il titolo del suo ultimo libro.
«Credo proprio che sia giunto il momento di superare il tema della pandemia e pensare a un modello nuovo per la nostra salute».

La pandemia è finita?
«Questo virus purtroppo non ci abbandonerà ma non siamo più a mani nude di fronte al mostro: abbiamo il vaccino, che è sicuro, abbiamo le medicine. Non buttiamo il nostro tempo e spazio mentale sulle questioni di lana caprina. Sappiamo quello che dobbiamo fare. Guardiamo avanti. Questo è il momento per ripensare al fatto che ci siamo fin qui occupati solo della salute dell’Homo sapiens come se questo esaurisse il tutto».

E invece?
«Invece l’hanno capito anche alcuni economisti che senza una salute circolare, e globale, non può esserci una crescita sostenibile. Se si perde la salute, si ferma tutto. La cura della salute del pianeta e di tutte le sue componenti, animali e vegetali, deve stare al centro».

È preoccupata dall’esito deludente del vertice sul clima di Glasgow?
«Resto ottimista. Non è una scusa per arrendersi. La ricerca va avanti e dal lavoro di frontiera e di incontro tra discipline diverse arriverà l’innovazione vera, possibilità nuove, le soluzioni. E arriveranno dalla generazione Z, che ha una forza inarrestabile».

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