Non è mai stato riportato un caso di infezione nell’uomo ma questo virus viaggia come il vento negli allevamenti. Un settore che vale 20 miliardi di euro e occupa 100.000 persone.
Articolo di Ilaria Capua per il Corriere della Sera.
Come era certo che avvenisse, la Peste Suina Africana è entrata nella filiera dell’allevamento suino con tutta la sua potenza distruttrice. La prima cosa che devo sottolineare è che questo virus è molto selettivo nella capacità di infettare i suoi ospiti che sono soltanto i suidi: suini, cinghiali e facoceri. Non è mai stato riportato un caso di infezione nell’uomo o di spillover in altre specie di mammiferi.
Ma allora perché se ne parla così tanto? Perché questo virus viaggia come il vento una volta entrato negli allevamenti e provoca grandi sofferenze agli animali colpiti che, inevitabilmente, muoiono. Voi vi domanderete: ma perché non si vaccinano queste povere bestie? Perché, ahimé, dopo decenni di ricerca nei centri di virologia più avanzati del mondo non si è riusciti a produrre un vaccino che abbia le caratteristiche di efficacia ed innocuità previste dalle autorità competenti. Quindi si combatte a mani nude e l’unica cosa da fare è quella di controllare la malattia con misure di biosicurezza draconiane. Ovvero, applicare misure di lockdown agli allevamenti suini: bloccare le movimentazioni di animali all’interno delle zone «rosse» e non permettere l’uscita né di suini né di altro materiale infetto dalle zone sottoposte a chiusura. Una delle caratteristiche maledette di questo virus è che è resistentissimo: sopravvive per mesi nelle carcasse degli animali morti, sul terreno, alle alte temperature e nei prodotti che si ottengono dal suino. Ma non solo, anche sulle scarpe degli operatori e sui loro abiti e su tutti gli attrezzi e i mezzi che si usano nell’allevamento. Un nemico invisibile e tenace.
La commissione Europea ci ha redarguito qualche mese fa per come sono state gestite le prime avvisaglie di questa infezione sul territorio italiano: in modo inappropriato, secondo gli esperti di Bruxelles. Di conseguenza il Ministero della Salute ha rivisto ed aggiornato di recente le norme di controllo, rendendole molto più stringenti perché è questo l’unico modo per fermare la malattia. Di fatto, stiamo rischiando di distruggere un settore chiave per l’agroalimentare italiano. Non solo: la peste suina africana è una malattia talmente pericolosa per la suinicoltura che nessun paese è disposto a rischiare di introdurla nei propri confini. In gergo si dice «ci chiudono»: che cosa significa? Vuol dire che i paesi verso cui noi esportiamo prodotti di origine suina (prosciutto, salami, lardo, soppressa, finocchiona) non importerebbero più i nostri prodotti, considerati a rischio per l’introduzione del virus nel loro territorio, e quindi calerebbe drasticamente il valore dell’export del comparto.
Qualche numero per capire la dimensione della catastrofe se non si riuscisse a fermare la diffusione della malattia. Il settore, in totale, ha un valore economico pari a 20 miliardi di euro (di questi 2,1 miliardi sono legati all’export) ed occupa 100.000 persone in tutti i segmenti della filiera. Nonostante le restrizioni imposte negli ultimi anni, in cui la malattia è stata segnalata prevalentemente nei cinghiali, l’export verso Canada ed Usa segna un più 30% nei primi 4 mesi del 2024 e le vendite all’estero sono l’unico ambito possibile di crescita economica di cui tanto abbiamo bisogno.
È urgente, anzi urgentissimo, seguire pedissequamente le indicazioni della commissione europea e del ministero e, soprattutto, finanziare le operazioni di controllo della malattia che ovviamente sono molto costose ma di certo molto meno onerose dell’esplosione della malattia nell’intera filiera del suino. L’Italia è giustamente orgogliosa del suo settore agroalimentare ed all’estero i nostri prodotti vengono ritenuti un’eccellenza per la loro storia e la loro unicità.
L’unico modo di evitare di mandare in fumo 20 miliardi e 100.000 posti di lavoro è rispettare le regole e fare uno sforzo di responsabilità collettiva che coinvolga la filiera in tutte le sue componenti, le istituzioni e gli organismi coinvolti i quali devono capire che questa è una priorità e che, quindi, vanno messe subito a disposizione le risorse per tutelare uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy.