Più forti con la scienza open-source e la collaborazione internazionale

9 Marzo 2020

Da IL FOGLIO, 09/03/20

È il 15 marzo del 2006 quando il New York Times pubblica un articolo dal titolo “Secret Avian Flu Archive” e descrive Ilaria Capua come “la scienziata che ha sfidato il sistema rifiutando di inviare i propri dati al database protetto da password dell’Oms. Al contrario, ha reso pubbliche le informazioni e ha invitato i suoi colleghi a fare lo stesso. Ha sicuramente ragione lei”. Ci sono voluti quattordici anni per comprendere l’importanza della condivisione delle informazioni in momenti d’emergenza come questo, per far capire anche a chi non era d’accordo che in queste situazioni bisogna superare i protagonismi, i campanilismi, anche a livello internazionale, e reagire con una rete di conoscenza internazionale e globalizzata.

Come la globalizzazione rende vicini posti anche lontani e quindi, di conseguenza, può portare patogeni che si trovano nella foresta nel giardino di casa propria, così la tecnologia ci permette di avvicinare ciò che è geograficamente lontano e studiarlo. Oggi possiamo studiare sequenze che si trovano in Mongolia oppure in Australia, e con una rapidità che anni fa era impensabile. L’iniziativa sulla condivisione delle sequenze lanciata nel 2006 ha creato un incidente diplomatico che però ha gettato le basi per la costruzione di una nuova infrastruttura che supera i confini geografici e mentali. Oggi dobbiamo migliorare e potenziare quell’infrastruttura, ovvero fare un passo in più. Immagino un network, una rete di collaborazione pre-organizzata che coinvolga gruppi di eccellenza che lavorano sugli stessi aspetti per trovare sintesi e non concorrenza. Se in tempi di pace di arrivasse a costruire una vera task force scientifica contro le pandemie avremmo risposte chiare, internazionali, e più veloci. Si potrebbe anche cercare di ridurre i danni economici perché avremmo dati più solidi e modelli più accurati, che possano ridurre l’incertezza. Intravedo la necessità di uno sforzo sovranazionale che sia in grado di capitalizzare sulle punte di eccellenza internazionali, cercare sinergie virtuose e finanziare questo genere di ricerca a flusso continuo, non solo durante le emergenze.

Con la trasparenza dei dati e la collaborazione internazionale siamo più forti. Basti pensare a quanto stiamo perdendo, anche economicamente, per la questione dello stigma dell’Italia, considerata l’untrice d’Europa. E non è così: L’Italia fa parte dell’Europa e della dinamica di diffusione europea. I dati genetici ce lo mostreranno, l’Italia non è un’isola a parte. Ma non è la politica che deve rispondere adesso, è la scienza. La politica deve trovare una soluzione per ribaltare la percezione del nostro paese da essere “unico untore” a “uno dei paesi che compongono il focolaio europeo” . Come può farlo? Chiedendo alla scienza italiana di sequenziare e pubblicare il prima possibile tutti i ceppi del virus italiani.

Sarebbe bellissimo vedere una responsabilità scientifica collettiva che dà al paese le risposte che servono in questo momento per ridurre l’onda d’urto. Io credo che ci sia bisogno di una piccola task force multicentrica che generi dati genetici su tutti i ceppi italiani in tempo reale. Che il virus in Italia sia arrivato dalla Cina o da altri paesi europei vuol dire che nessun paese deve portare da solo lo stigma dell’untore, ma che siamo tutti negli ingranaggi della stessa pandemia. Non servono muri, geografici, mentali o scientifici ma la consapevolezza che solo condividendo il più possibile potremmo prenderci il vantaggio che ci serve. Perché i virus non aspettano.

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