Corriere della Sera, editoriale del 6 aprile 2021
La scienza non può più nascondersi dietro un filo d’erba. Bisogna farsi coraggio e affrontare l’elefante che troneggia nei nostri dubbi sospesi a mezz’aria.
Mi riferisco alla verità implicita racchiusa nella missione dell’OMS a Wuhan per investigare sull’origine del Sars-Cov-2. L’essenza è questa: se l’OMS, oltre un anno dopo il fatto, decide di spedire un gruppo di esperti in Cina per cercare di stabilire che cosa è successo, un motivo c’è. E il motivo che serpeggia nel fondo è che è accettato e risaputo che in alcuni laboratori del mondo esista la tecnologia per alterare virus naturali più o meno innocui e trasformarli in stipiti virali potenzialmente pandemici. Esemplifico: l’ipotesi che Sars-Cov-2 possa essere figlio di un virus generato in laboratorio è ritenuta plausibile al punto tale da dover mandare una squadra di esperti a verificare cosa è successo in quel laboratorio. Vorrei accompagnarvi nei presupposti delle motivazioni dietro al metodo e non nel merito.
Finanziamenti internazionali
Questi esperimenti detti Gof (Gain of fuction, acquisizione di funzioni) mirano a far acquisire a virus naturali o di laboratorio alcune caratteristiche come la virulenza o la trasmissibilità per poi studiarne i meccanismi in sistemi di ricerca artificiali. Di questi esperimenti si parlò molto nel 2012 quando alcuni gruppi di scienziati fi- nanziati da enti pubblici trasformarono virus influenzali aviari H5N1 in una variante più contagiosa. Al momento di pubblicare la ricerca su riviste scientifiche (sostanzialmente la ricetta per rendere più pericoloso questo virus) ci si accorse che forse pubblicare quella ricetta non era saggio e gli esperimenti furono temporaneamente sospesi. Già, perché una volta che pubblichi la ricetta, quella ricetta la può ricreare chiunque, anche in un laboratorio gestito da una persona squilibrata o in zone dove regna l’instabilità politica e si rischia il saccheggio delle strutture di ricerca. Non solo, ma da qui a dieci anni, se questa metodologia Gof diventasse oggetto di finanziamenti internazionali vi sarebbe una proliferazione in tutti i continenti dei laboratori che possono di fatto creare virus potenzialmente pandemici. E la domanda che si pone spontanea è: vogliamo trovarci fra un decennio con migliaia di laboratori che sviluppano potenziali virus rafforzati? Più contagiosi o più letali che rappresentano un rischio per l’umanità anche soltanto in quanto esistenti?
L’addio alla catena del freddo
Vieppiù. La pandemia porta con sé l’urgenz a di non ricadere negli stessi meccanismi che ci hanno resi vittime di questa catastrofe. Da un lato si dovranno trovare delle strategie di riduzione del rischio di salto di specie all’origine, ovvero ridurre al minimo quei contatti a rischio animale-uomo che sono il primum movens del fenomeno pandemico. Ma questo non può bastare. Dobbiamo arrivare ad avere vaccini per tutta la popolazione da produrre rapidamente e su larghissima scala. Ma ci siamo accorti che all’armamentario di vaccini che abbiamo sviluppato manca ancora un pezzo fondamentale. Per schiacciare definitivamente la curva del Sars-Cov-2 e soffocare il Covid-19, e ancor di più per proteggerci da un futuro evento pandemico, dobbiamo avere vaccini «più agili». L’obiettivo nel medio termine è quello di fare arrivare i vaccini contro Covid-19 a tutta la popolazione mondiale, anche per ridurre l’emergenza di nuove varianti. Ma la vera rivoluzione del futuro sarebbe di vaccinare tutti prima che si sviluppi la prima ondata pandemica. Per arrivarci dobbiamo essere coraggiosi adesso, e spingere il potenziale dell’immunizzazione al suo limite estremo cambiando sostanzialmente una variabile. Ci vuole una strategia che si basi sull’abbandono (finalmente) della catena del freddo per conservare, distribuire e somministrare i vaccini. Un mondo totalmente interconnesso deve capire che i vaccini del futuro dovrebbero essere recapitabili per posta e autosomministrabili. Niente file, niente chiamate, niente viaggi in tanta malora per questa puntura salvavita. Dobbiamo intraprendere una strada di ricerca che ci porti un mantello di protezione, che funzioni sia per oggi sia per domani ma che incarni un cambio di direzione.
Parlo di rendere i vaccini esistenti stabili a temperatura ambiente e ricercare nelle nuove soluzioni tecnologiche che ci permettano di abbandonare la catena del freddo. Avere vaccini che non richiedono -70, -20 o anche +4 gradi per lo stoccaggio, la distribuzione e la somministrazione rivoluzionerebbe davvero le nostre potenzialità di erogare prevenzione. Anche negli angoli del mondo che non hanno accesso all’elettricità si potrebbe avere accesso ai benefici di questa pratica salvifica .
La consapevolezza
La domanda che ci dobbiamo porre mentre queste due tematiche scorrono silenziose e inosservate e noi siamo distratti a gestire l’ordinaria amministrazione della pandemia è chiara. Affrontare il rapporto rischio-beneficio di moltiplicare i laboratori che possono generare virus con potenziale patogeno rafforzato oppure spingersi nell’immaginare un mondo che grazie al Covid-19 avrà presto vaccini in formato cerotto, spray, chip che possono arrivare a destinazione anche senza un involucro gigantesco e refrigerante, che a oggi si è mostrato uno dei principali colli di bottiglia della logistica. Si tratta solo di pensarci bene scegliere, perché questo dibattito plasmerà il futuro delle nostre società e proprio per questo motivo al tavolo ci devono stare tutti. Di soldi per la ricerca non ce n’è mai abbastanza e prima che sia troppo tardi riflettiamoci bene perché questo momento di consapevolezza non ripasserà fino alla (ahimè) prossima pandemia. Insomma, in futuro vogliamo investire sul potenziamento dei virus o dei vaccini?