Intervista di Fulvia Caprara
Ci sono le pause, ci sono le parole scelte con cura, c’è l’attenzione a comunicare pensieri in modo esatto e chiaro “in un momento esplosivo, sia dal punto di vista virologico che mediatico”. Dall’altra parte dell’oceano, nel giorno in cui a Torino va in scena, in anteprima al Tff, il film ́”Trafficante di virus”, liberamente ispirato alla sua storia, Ilaria Capua riconduce nei binari della sua esperienza l’allarme di queste ore.
Il numero dei contagi Covid torna a salire, la nuova variante Omicron semina terrore. Che cosa sta succedendo? ́
Solo quello che è normale che succeda. Ho detto tantissime volte che questo virus non andrà via, l’ho ripetuto, anche con grande frustrazione e dispiacere, ma è cosi. Non c’è nulla di sorprendente in quello che sta accadendo, è successo con altre pandemie e con altre malattie infettive. Non capisco la sorpresa. Sappiamo che, più il virus circola in popolazioni non vaccinate e più è possibile che si selezionino delle varianti. Sappiamo che in Africa il tasso di copertura vaccinale è bassissimo, che alcune varianti ci daranno filo da torcere, che non è detto che quest’ultima sia fra queste. Prima di terrorizzare le persone e di far partire l’allarme che percepisco, bisogna analizzare Omicron e fare molte valutazioni. Gli europei devono rendersi conto che l’unico strumento di cui disponiamo è il vaccino.
Che cosa bisogna fare adesso?
L’ansia e la paura non servono a niente, le uniche cose che servono sono quelle che sappiamo. Rispettare le distanze di sicurezza, evitare i luoghi affollati senza protezione, soprattutto se non si è vaccinati, non stare tutti appiccicati, e alzare il più ̆ possibile il muro della vaccinazione, ovvero lo strumento più ̆ adeguato a gestire il momento che stiamo vivendo.
Di norma i vaccinati che si ammalano non vanno in ospedale. È questo il punto, giusto?
Sì, ed è quello che le persone non riescono a mettere a fuoco. Tutto quello che facciamo serve a evitare che la gente vada in ospedale, se le corsie si riempiono le persone potrebbero morire fuori da queste strutture, in casa o per strada, e questo è socialmente inaccettabile. L’obiettivo è non far andare la gente in ospedale, adesso abbiamo gli strumenti per evitarlo, abbiamo visto tutti che cosa succede quando i pronti soccorsi sono strapieni, a quel punto l’unica soluzione è il lockdown.
Che cosa pensa di quelli che ancora rifiutano il vaccino?
“Preferisco non rispondere, facendolo alimenterei la polemica…”
Che ruolo ha avuto la comunicazione da quando è iniziata la pandemia?
All’inizio c’è stato uno “stupore pandemico”, erano pochissimi quelli che, anche fra i medici, gli infermieri, gli accademici, credevano davvero che una cosa del genere potesse succedere, vi era un livello di preparazione non adeguata. Non voglio dare colpe i giornalisti, ma, nel 2009, quando ci fu la suina, io ero al CDC di Atlanta, e, già all’epoca, c’erano dei corsi per giornalisti. La comunicazione è importantissima, ha un impatto significativo sull’evoluzione della malattia. Mi auguro che, nel post-pandemia, si facciano corsi per preparare la stampa ad assumere uno stile comunicativo adeguato a fenomeni che riguardano la salute pubblica. Purtroppo è accaduto che siano girate un sacco di notizie sbagliate e poco approfondite.
Che ruolo ha avuto la politica, in Italia e altrove, nell’evolversi della pandemia?
Una pandemia così pervasiva lambisce tutti gli ambiti della politica, in tutti i Paesi. Il problema è che anche i politici e i decisori erano impreparati, adesso va un po meglio, abbiamo visto con quanta assertività Merkel abbia detto che bisognava chiudere tutto. Due anni dopo anche i politici hanno imparato di più, ma l’argomento resta divisivo in tutto il mondo. Nel mio ultimo libro scrivo che il vulnus principale di questa emergenza è il negazionismo e cioè il fatto che, quando l’allarme è stato dato, vari fra i leader del mondo occidentale, hanno avuto atteggiamento negazionista e questo ha influenzato l’opinione dei loro elettori. Negli Stati Uniti tante persone credono ancora che il Covid non esista.
I suoi interventi, dall’esplosione del virus ad oggi, sono stati spesso criticati, e lei attaccata, anche in modo violento. Come li ha vissuti?
Ricevo molti insulti a sfondo veterinario o sessuale, tipo “torni a pulire il c…ai cani” oppure “torni in mezzo alle scrofe che sono uguali a lei”. Nessuno di noi si aspettava tanto odio e tante critiche, ma, se decidi di esporti e partecipare al dibattito pubblico, sai che ti prenderai gli insulti, il che non vuol dire che non ti facciano male.
Che effetto le ha fatto sapere che qualcuno voleva fare un film dal suo libro?
Sono rimasta meravigliata, non me laspettavo, mi sono anche un po’ preoccupata perchè la st ria tocca tanti nodi di attualità, e poi perché lì dentro c’è una parte della mia vita, anche se trasformata dalla narrazione.
Come giudica il film?
È un film serio, ben fatto, equilibrato. Racconta cose che nessuno racconta mai, ovvero che cosa fa un laboratorio che si occupa di virus pre-pandemici, la strana magia che lo caratterizza, il fatto che esista una leadership femminile forte e diffusa e che questo sia un punto di forza. La protagonista è stata molto brava, Foglietta interpreta Irene Colli, che è un personaggio ispirato a me, io forse sono un po’ diversa ma non importa, questo è un film, non un documentario.
Rivivendo la sua vicenda che cosa ha provato?
È difficile, disorientante, rivedere se stessi, di certo nel film è ben rappresentata la maratona a ostacoli durata 15 anni. Ho pensato quanta sofferenza per nulla, quanto rumore per nulla. Alla fine chi ci ha guadagnato? Nessuno. Io sono stata travolta dagli eventi, il gruppo di ricerca si è in parte disgregato, la magistratura ha attaccato il servizio sanitario pubblico, oltre che degli individui ed anche a livello internazionale, il paese ci ha fatto una brutta figura, insomma uno spreco gigantesco. Di tempo, di energie, di anni di vita felice.
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