Recensione di Massimo Sideri
La meraviglia e la trasformazione. Verso una salute circolare è il nuovo libro della direttrice del Centro One Health dell’Università della Florida, che sogna i «vaccini termostabili».
Due parole fanno da titolo al nuovo libro di Ilaria Capua: meraviglia e trasformazione. Apparentemente positive. In realtà difficili. Come pandemia, che viene dal greco pan, tutto, e démos, popolo. Dove pan è anche la radice di panico. La meraviglia è difatti quella dello spavento, del thauma greco, ciò che proviamo «di fronte a una voragine che si apre di colpo». La trasformazione quella del coraggio di cambiare. A patto di capire quello che prima facevamo finta di non vedere: «Ricordarci che eravamo uomini, non dei, non era semplicissimo. Infatti ce lo siamo dimenticato», scrive subito la scienziata. Non è una semplice frase a effetto, piuttosto una ricetta: il virus Sars-CoV-2 ha smantellato le nostre illusioni di poter trovare soluzioni semplicistiche a equazioni con decine di incognite: finanza, lavoro, viaggi, ambiente, salute, famiglia, convivenza, tecnologia, progresso, inquinamento. La teoria dello sgocciolamento, secondo cui basterebbe far piovere soldi dall’alto per poi far sgocciolare i benefici su tutto e tutti, è una fantasia pericolosa. Per questo il titolo completo del libro edito da Mondadori e appena uscito in libreria è «La meraviglia e la trasformazione. Verso una salute circolare», dove circolare va inteso nella sua componente dinamica. Come amava dire Albert Einstein: la vita è come una bicicletta, per mantenerla in equilibrio devi pedalare. La salute della Terra anche.
Ilaria Capua questa volta sceglie una narrazione avvolgente in cui ci prende per mano come Virgilio: leggendo sembra di ritrovarsi nello stupore iniziale che ha colpito tutti coloro che non pensavano sul serio che una gocciolina piena di virus potesse fare non solo il salto di specie, ma metterci in ginocchio come umanità («Nel 2004 — ricorda in una nota autobiografica — ero così convinta che a breve sarebbe scoppiata una pandemia, se non di influenza aviaria, di una malattia causata da qualche altro virus, che ho comprato tre pacchi di mascherine»). Poi ci si ritrova in quello che chiama «solco», la chiusura della società, il fondo del barile. Ed è qui che viene la parte construens, anche se condizionata. Perché non si tratta di spingere un bottone, scrivere un tweet, fare una manifestazione no mask sperando che come per magia tutto scompaia. O, ancora, dare giudizi («La natura non ci è né madre né matrigna: alla natura di noi non importa nulla, ci considera animali come gli altri» ci ricorda la direttrice del Centro di Eccellenza One Health dell’Università della Florida). Si tratta di capire che le pandemie sono grandi effetti trasformazionali e che «lo abbiamo già fatto». Homo sapiens si è già trovato nel solco e ne è uscito. Per molti versi si ritrovano nel libro le riflessioni delle riunioni che i grandi della Terra hanno tenuto per la Cop26: si tratta di mettere in discussione il nostro modello di sviluppo, ponendo al centro non finanza e tecnologia, che sono mezzi, ma il pianeta. Dobbiamo passare dall’ego all’eco: la nostra salute conta come quella del pangolino, ci ricorda l’autrice: «La pandemia ci ha insegnato che anche nel terzo millennio siamo vulnerabili, proprio come lo eravamo secoli fa». Nella scrittura di Ilaria Capua torna spesso la forma mentis, oltre che della virologa, anche del medico veterinario di formazione, che non ci vede come Homo Deus. Tutt’altro: semmai ci vede esattamente come specie animale. Senza offesa. Non a caso il libro dedica interi capitoli alle api di New York e ai cinghiali romani. Forse proprio questa prospettiva diventa il convitato di pietra di Glasgow dove tutto si è concentrato sui numeri: riduzione delle emissioni di CO2. La società umana ha bisogno di numeri, la politica e gli impegni anche. Eppure rimangono anche i «sogni» da inseguire, con cui la scienziata decide di chiudere il libro. Una proposta per tutte? Quella dei vaccini termostabili, che non dividerebbero più il mondo tra Paesi ricchi e poveri. È il momento «di volare alto» scrive Capua ricordando il messaggio di Steve Jobs (stay hungry, stay foolish). «Oppure di aspettare la prossima pandemia».
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